Previdenza complementare e TFR: una nuova occasione per rilanciare il secondo pilastro

La previdenza complementare torna sotto i riflettori grazie alla Legge di Bilancio 2025, che introduce – per la prima volta – la possibilità di utilizzare le rendite della previdenza integrativa per anticipare la pensione.

Tale novità riguarda un cambiamento significativo nell’integrazione tra previdenza pubblica e previdenza complementare, e può rappresentare una svolta per i lavoratori che hanno iniziato a versare contributi dal 1° gennaio 1996 in poi, ovvero i cosiddetti contributivi puri.

Ecco come funziona nel dettaglio:

Nel sistema contributivo puro, il diritto alla pensione di vecchiaia si matura con:

· 20 anni di contributi,

· e con un importo minimo dell’assegno pari a 1,5 volte l’assegno sociale (circa 1.170 € lordi mensili nel 2025),

· al compimento dei 67 anni.

Se l’importo stimato della pensione è inferiore a questa soglia, il lavoratore non può accedere alla pensione. 

Fino a oggi, si poteva solo:

· rimandare il pensionamento,

· o continuare a lavorare per aumentare l’importo della pensione maturata.

​Cosa cambia con la Legge di Bilancio 2025 

Per la prima volta, il legislatore ammette che le rendite provenienti dalla previdenza complementare possano essere sommate alla pensione INPS per raggiungere la soglia minima richiesta (1,5 volte l’assegno sociale). 

  • Se la pensione pubblica è inferiore alla soglia minima, ma il lavoratore ha maturato una rendita integrativa derivante da un fondo pensione, questa può essere conteggiata nel calcolo dell’importo minimo. 
  • Ciò consente l’accesso alla pensione anche in presenza di una pensione pubblica insufficiente, grazie al supporto della previdenza complementare. 

I beneficiari: 

  • Solo i lavoratori contributivi puri, ossia chi ha iniziato a versare i contributi dal 1° gennaio 1996. 
  • È quindi escluso chi ha anzianità contributiva precedente al 1996, perché il loro calcolo pensionistico non è integralmente contributivo. 

Questa misura: 

  • Eleva il valore strategico della previdenza integrativa, che da “integrazione” diventa in alcuni casi condizione necessaria per il pensionamento. 
  • Apre nuove leve di consulenza, sia per lavoratori giovani o con carriere discontinue, sia per chi non riuscirà a maturare una pensione adeguata con il solo primo pilastro (INPS). 
  • Rafforza il ruolo del TFR conferito ai fondi pensione come strumento per accrescere il montante utile alla futura rendita. 

Oltre a offrire nuove opportunità ai lavoratori, l’intervento mira a incentivare l’adesione ai fondi pensione e a stimolare il conferimento del TFR e i versamenti volontari. 

Una spinta necessaria, in un contesto in cui il sistema pubblico è messo alla prova da invecchiamento demografico e instabilità lavorativa e in cui la previdenza integrativa fatica ancora a conquistare la piena fiducia degli italiani. 

Il TFR – Trattamento di Fine Rapporto – rappresenta un’opportunità concreta di pianificazione per il futuro, eppure continua a essere lasciato in azienda dalla maggior parte dei lavoratori. 

Oggi il lavoratore può scegliere se: 

  • Accantonarlo in azienda, dove matura secondo un meccanismo fisso (1,5% + 75% dell’inflazione); 
  • Destinarlo a un fondo pensione, dove viene investito sui mercati finanziari e può beneficiare di una tassazione più vantaggiosa. 

I numeri parlano chiaro: 

  • Solo il 22% del TFR maturato tra il 2007 e il 2023 è stato conferito a forme di previdenza integrativa (pari a circa 97 miliardi di euro). 
  • Il restante 78% è rimasto nelle casse aziendali o nel Fondo Tesoreria INPS, come mostrato nel grafico qui sotto: 

Eppure, l’85% degli intervistati in un recente sondaggio Moneyfarm ritiene economicamente vantaggioso investire il TFR in una forma di previdenza integrativa. Il problema? Solo un terzo lo fa davvero. 

Le ragioni dietro la scelta 

Secondo il sondaggio, alla base di questa "incoerenza comportamentale" ci sono principalmente: 

  • Scarsa informazione: molti lavoratori non sanno di poter destinare il TFR a fondi pensione (39% degli intervistati). 
  • Percezione di maggiore flessibilità: il TFR lasciato in azienda è visto come più “disponibile”. 
  • Timori legati ai mercati finanziari, alimentati da una educazione finanziaria ancora insufficiente. 

 

Come spiega Michaela Camilleri, responsabile del Centro Studi Itinerari Previdenziali: 

“La previdenza complementare è percepita come rischiosa. Ma esistono regole di vigilanza stringenti e, su orizzonti temporali lunghi, si ha spesso la possibilità di recuperare le fluttuazioni negative dei mercati.” 

 

Rendimento e fiscalità: il confronto 

Indicatore 

TFR in azienda 

Fondo pensione 

Rivalutazione media annua (2024) 

2,3% 

2,7%-3,2% (fino al 5% azionario) 

Tassazione in uscita 

IRPEF media (23%-43%) 

Agevolata: 15% ➝ fino al 9% 

Flessibilità 

Media 

Alta (possibilità anticipazioni) 

Protezione da creditori 

No 

Sì 

 

Un quarantenne con 2.000€ netti al mese potrebbe trovarsi, al momento della pensione, con: 

  • 57.838 € lasciando il TFR in azienda 
  • Tra 60.525 € (linea obbligazionaria) e 92.982 € (linea azionaria) con un fondo pensione 

Differenza massima: oltre 35.000 euro. 

E in uno scenario di inflazione media al 3%, il costo opportunità può arrivare all’83% di ricchezza in meno se il TFR resta in azienda. 

Il TFR, oggi, è più di una semplice liquidazione di fine rapporto: è uno strumento strategico di pianificazione. 

Sta a noi trasformarlo in occasione per costruire cultura previdenziale e per accompagnare il cliente in scelte consapevoli, informate e vantaggiose. 

 

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